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Una riflessione sul ruolo del giornalista: tra “notizie” e “storie”

Negli Stati Uniti in questo periodo, in buona parte soffocato dalla campagna elettorale per le presidenziali che sta arrivando ai suoi momenti cruciali, si è sviluppato anche un interessante dibattito sul giornalismo e sui suoi fondamenti più profondi.

Un dibattito partito dall’emergere di una vicenda che ha messo in forte imbarazzo il New York Times, uno dei giornali più autorevoli e conosciuti del mondo, e che si è allargato fino a prendere in esame i fondamenti del mestiere del giornalista, la necessità di garantirne l’affidabilità, ma anche un’evoluzione nelle strategie di narrazione che per certi versi ha avvicinato il giornalismo americano a uno stile italiano che fino a qualche tempo fa veniva abbastanza deprecato.

La tentazione del protagonismo giornalistico

Uno stile che trasforma le notizie in racconti, cercando di renderli il più possibile coinvolgenti, tralasciando alle volte l’accuratezza, il fact checking, a favore di un protagonismo diretto di chi scrive, la cui opinione diviene parte integrante della notizia stessa ed anzi è quella che in un certo modo fidelizza i lettori e li rende quasi “fan” di un redattore o dell’altro.

Il “foreign fighter” del New York Times

Il caso del New York Times è nato attorno a un reportage, realizzato sotto forma di podcast, realizzato dall’esperta di terrorismo Rukmini Callimachi. La stessa redazione del NYT però ha avuto modo di approfondire la vicenda che veniva raccontata, che poi si è rivelata per gran parte infondata.

Il podcast era uscito nel 2018 ed in gran parte era basato sulla vicenda di Abu Huzayfah, un foreign fighter canadese il cui vero nome è Shehroze Chaudhry: aveva raccontato di essersi unito nel 2014 allo Stato Islamico e di aver combattuto in Siria per due anni. Ma lo scorso settembre Chaudhry è stato arrestato in Canada, con l’accusa di essersi inventato tutto.

Una risposta seria e autocritica                 

Ovviamente questo ha creato un comprensibile imbarazzo nella redazione del giornale, ma anche un’attenta analisi di cosa fosse andato storto, che non ha lesinato autocritiche, sul modello del reporter attuale, che guarderebbe ai trend social per cercare di capire quali storie saranno maggiormente richieste e apprezzate, piuttosto che alla nuda realtà. Reporter che nel modo raccontarle, enfatizza alcuni aspetti narrativi superando alle volte l’accuratezza e, magari, distorce anche l’andamento dei fatti, gonfiandone aspetti e sminuendone altri.

Casi di scoop “smontati” che hanno fatto scuola

L’episodio del Times non è sicuramente il caso più eclatante di scoop in cui il giornalista era incappato in una grossa “svista” o trappola costruita da qualcuno in cerca di fama. Anzi ci sono stati casi di notizie completamente inventate da reporter rampanti, smascherati poi anche a causa della fama sopraggiunta attraverso storie sicuramente roboanti e coinvolgenti, alle quali mancava solo la caratteristica di essere reali.

Claas Relotius, 33 anni, era un famosissimo reporter tedesco, che aveva vinto tutti i più importanti premi giornalistici di Germania, per il settimanale Der Spiegel, nominato anche “Journalist of the Year” da parte della Cnn. Ma si inventava interviste, testimonianze, ricostruzioni, creando dal nulla fonti che non esistevano e protagonisti che con la realtà non avevano nulla a che spartire. La verità sul suo caso è emersa nel 2018.

Prima, alla fine degli anni ’90, sempre negli Stati Uniti aveva fatto scalpore il caso di Stephen Glass, autore per The New Republic, un mensile molto quotato tanto che era abitualmente presente nella rassegna stampa della Casa Bianca: emerse infatti che la gran parte degli articoli per i quali era diventato una celebrità, un astro nascente del giornalismo statunitense, erano inventati di sana pianta, e per questo fu licenziato. Anni dopo, intervistato sulla sua carriera, spiegò: “Volevo che amassero le mie storie così avrebbero amato me”.

Un vizio che veniva ascritto all’Italia

Una frase che fa riflettere e che segna quello che citavamo come un avvicinamento del giornalismo americano a quello italiano. Fino a qualche anno fa, la stampa statunitense, ma potremmo dire più generalmente “anglosassone”, era molto rigorosa su quello che era il ruolo del giornalismo: raccontare i fatti, astenendosi da commenti e opinioni personali. Chiunque abbia appreso qualche minima nozione di giornalismo, sa che i “comandamenti” per scrivere un articolo erano basati sul rispetto delle 5W: what, when, where, who e why.

Questi dovevano essere i quesiti che guidavano un buono scritto, raccontare i dettagli di un evento, e a questi fermarsi. E da questo tipo di giornalismo veniva guardato con una certa superiorità il vizio di molti giornalisti italiani di fare carriera in base alle loro considerazioni e opinioni, spesso rese protagoniste del loro lavoro. Pur ritenendo il nostro stile giornalistico “molto divertente”, lo vedevano come poco affidabile.

Passavamo insomma per quelli che più che “dare notizie” le “raccontavano”, con una certa deriva che rapidamente poteva decadere nello stereotipo di raccontare storie (anche nel senso più deleterio della locuzione). 

Recuperare la capacità del giornalista di “scomparire”

Una linea che è ancora molto forte. Afferma ad esempio Luca Sofri sulla testata online Il Post:

Tra le ragioni per cui la scrittura giornalistica italiana è diventata – nella sua parte maggiore e più vistosa – così povera, banale, conformista e così poco “giornalistica” c’è la ricerca di affermazione di sé generata dal timore dell’insignificanza e dal bisogno di essere riconosciuti, notati, semplicemente visti. Nella scrittura giornalistica si traduce nella ricerca di artifici e virtuosismi che ricordino al lettore che non sta semplicemente leggendo di fatti, notizie e informazioni: ma che sta leggendo di qualcuno (io, me, l’autore!) che gli offre quei fatti, notizie e informazioni. Moltissimi autori credono che la loro capacità di “scomparire” non sia – come è – la dote migliore della gran parte del giornalismo che informa e spiega.

Il fatto che in questa commistione tra giornalismo e storytelling stiano entrando anche coloro che ci guardavano con superiorità non dovrebbe essere una grande consolazione. A imporre le priorità dovrebbero essere sempre le notizie, esposte con il maggior distacco possibile e senza la volontà di orientare l’opinione di chi le legge.

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